Kind of white, il bianco di Mirella Ferrari
2013 mostra personale
a cura di Valerio Dehò
Allestimento: Mirella Ferrari, Stefania Guerra, Gary Lissa e Maria Teresa Zanandreis
GALLERIA TERRE RARE a Bologna
Inaugurazione sabato 12 ottobre 2013 | dal 13 al 26 ottobre
Art direction e catalogo: Stefania Guerra
Una mostra dedicata al colore bianco, ma anche ai suoi mille contrasti, alle sue infinite sfumature. Mirella Ferrari, artista bolognese che vive a Firenze, lavora principalmente con il medium della carta e realizza lavori che sono preziosi come ricami, solidi e delicati nello stesso tempo. Il colore bianco è il protagonista assoluto della storia dell’arte sia in negativo che in positivo. Il colore stranamente non è ben visto, anche da parte di artisti che lo hanno adoperato magistralmente. Sembra appartenere ad una fase primitiva, stranamente viene considerato come un nemico della mente. Bernard Berenson nella sua Estetica divideva le società tra quelle fondate sul binomio mente-forma e quelle più semplici fondate sul binomio muscolo-colore. Nell’arte contemporanea il colore bianco è fondamentale: le gallerie e i musei sono di questo colore, eredità certamente dell’architettura moderna e del “purismo” di Le Corbusier. Mirella Ferrari, con grandi capacità tecniche, realizza dei lavori in cui l’interazione tra la forma, la materia e il colore-non colore fa emergere delle opere sensibilissime ai cambiamenti della luce. La stessa idea delle forme elementari, come può essere quella di un semplice vestito da donna, non è un semplice richiamo ad un mondo femminile, ma indica anche una funzione. Il “White to dress”, il bianco da indossare, diventa qualcosa che può trasportare queste idee fuori dal mondo dell’arte, è un’indicazione che conduce direttamente nella società, nella vita comune. Indossare il bianco non è un richiamo ad un’improbabile purificazione collettiva, piuttosto significa privilegiare il rapporto con gli altri, rimanere in ascolto di quanto accade. Per questo l’idea di utilizzare principalmente la carta, cioè una materia così antica e così intrinsecamente legata al ciclo biologico, alle fibre vegetali, fa diventare questa serie di lavori una costruzione mentale, un percorso di sensibilità e di conoscenza, per restituire il bianco alla Natura.
Il colore bianco è probabilmente il protagonista assoluto della storia dell’arte sia in negativo che in positivo. Otticamente si tratta di una somma di tutti gli altri colori ma le verità scientifiche spesso non sono colte dagli artisti se non in particolari momenti della storia in cui le due culture si avvicinano. Scrisse Joshua Reynold, fondatore della Royal Academy di Londra: “Benché si possa concedere che l’elaborata armonia della colorazione, la brillantezza delle tinte, una dolce e graduale transizione da una all’altra, offrano all’occhio quello che un armonioso concerto di musica offre all’orecchio, bisogna ricordare che la pittura non è semplicemente una gratificazione della vista.” Il colore stranamente non è ben visto, anche da parte di artisti che lo hanno adoperato magistralmente. Sembra appartenere ad una fase primitiva, stranamente viene considerato come un nemico della mente. Bernard Berenson nella sua Estetica divideva le società tra quelle fondate sul binomio mente-forma e quelle più semplici fondate sul binomio muscolo-colore. Strana storia questa del rifiuto del colore che prima di arrivare al White Cube è passata attraverso tutte le maledizioni possibili. La forma, soprattutto, il disegno, il bianco e nero o il chiaroscuro: tutto ma non il colore. L’arte ha oscillato pericolosamente verso una polarità ansiogena, verso una ricerca dell’impossibile. Il colore che aveva invaso l’antica Grecia e coperto statue e templi è stato lavato dal Neoclassicismo che ci ha restituito un’immagine candida dell’antichità, falsa ma pulita. Eppure il bianco è l’unico colore o non colore che può aprire le porte dell’assoluto. In quanto luce diventa una porta sull’infinito, è candore, rigenerazione, abbacinante metafora del mondo fuori dalla terra e lontano dagli umani. La balena bianca di Melville, i ghiacci di Gordon Pym, la purezza vagheggiata di Winckelmann, l’immaginario di Marlowe che scende il Tamigi per recarsi al centro del Cuore di Tenebra. Curiosamente il bianco è un colore che assorbe tutto. Lo diceva Sartre che anche uno schizzo di sangue su di un muro bianco può scomparire. Ma questi sono demoni meridiani, storie di luce e di follia che solo persone come Albert Camus potevano sentire e scrivere. L’arte ha fatto sempre i conti con la negazione del bianco e parallelamente con la sua specularità metafisica. Mirella Ferrari riparte con immediatezza e coscienza da una ricerca in cui la stessa forma interagisce con il bianco. La forma e il disegno lei li lascia apparire. Cioè appartengono al regno improprio della materia, la carta, che non può essere che bianca, in quanto contenitore di tutte le parole possibili. In questo caso diventa qualcosa d’altro e di diverso. Si tratta di far emergere dal bianco proprio la forma che sa disegnare e dare senso mentale al bianco. Le ombre diventano la trasposizione del tratteggio, della delimitazione dello spazio, della separazione tra un dentro e un fuori, tra l’umano e il naturale, tra l’artificiale e lo spontaneo. Mirella Ferrari costruisce dei calembour visivi che hanno l’apparenza del semplice, perché così devono essere per sorprendere lo spettatore. Il gioco tra la trama, la materia e l’ombra apre alla forma ma anche al colore. Il bianco risulta in questo modo un recettore del colore ma di un tipo assai diverso da quello della natura che sa comunicare soltanto attraverso di esso. Si tratta di far nascere un colore concettuale, qualcosa di tremendamente umano, qualcosa che non può che affermarsi attraverso la sua opposizione. È il bianco nei suoi aspetti più alternativi e variabili, a diventare il contenitore di ciò che non dovrebbe saper esprimere. Si può fare tutto con il bianco, ci dice l’artista, non ci sono altre vie di fuga. Se si vuole esprimere l’esprimibile, è sufficiente quello strano colore che non si capisce a quale mondo appartenga, se a questo o all’Altro. In questo caso siamo all’opposto di quanto descritto da Henry Michaux, scrittore, artista e sperimentatore di droghe. Sotto mescalina scrisse: “E appare il « bianco ». Bianco assoluto. Bianco al di là di ogni bianchezza. Bianco dell’incombere del bianco…Bianco elettrico orribile, implacabile, assassino.” In questo caso Mirella Ferrari compie un’operazione di restituzione, fa ritornare il bianco a protagonista della modernità, di quella purificazione dell’arte che ha prosciugato il colore a favore di un ascetismo radical chic da design contemporaneo. D’altra parte lo restituisce alla sua storia, alla sua problematicità: al suo fascino di non-colore che sa esprimere tutto. Anche i suoi contrari. La semplicità dei suoi lavori, il loro candore, le forme scandite in ritmi costanti, il richiamo a textures provenenti da un mondo femminile di sapiente e lenta costruzione, sono il segno di un lavoro che vuole edificare e mai distruggere. Un universo in formazione che sa comprendere l’alternanza tra la forma e il colore, la ricerca cioè di un equilibrio, non la necessità di un antagonismo. La sintesi di Mirella Ferrari ha la volontà di cercare una purezza senza rinunciare alla sensualità, alla morbidezza, ad un colore bianco di infinite gradazioni, cioè ad un catalizzatore di frammenti di colore sparsi nella luce attorno. La scansione delle ombre disegna esattamente la realtà, richiama fortemente quel privilegio della mente a cui l’occidente deve tutto, basti pensare al Masaccio e l’intera pittura fiorentina che ne discende. Inoltre l’ombra è anche una relazione spaziale importante, pone i lavori dell’artista in una dinamica intersoggettiva, li colloca nello spazio. Questa variabilità alla luce, alla distanza dalla fonte luminosa diventa tanto più sensibile perché la carta è materia vibratile, riceve le sfumature della luce, le fa proprie, le assorbe. La stessa idea delle forme elementari o del vestito non è un semplice richiamo ad un mondo femminile, ma indica anche una funzione. Il bianco da indossare diventa qualcosa che può trasportare queste idee fuori dal mondo dell’arte, sembra quasi una sorta di indicazione vettoriale che porta direttamente nella società. Indossare il bianco è un richiamo non ad una purificazione o ad una ritualità improbabili, quanto il privilegiare un rapporto con gli altri, un ascolto di quanto accade. Per questo l’idea di utilizzare principalmente la carta, cioè una materia così antica e così intrinsecamente legata al ciclo biologico, alle fibre vegetali, fa diventare questa serie di lavori una costruzione mentale, un percorso di sensibilità e di conoscenza, che restituisce il bianco alla Natura.