Negli ultimi trent’anni abbiamo avuto molte profezie sul futuro che ci attende e che per molti è già cominciato. Abbiamo sentito parlare di “società liquida” o addirittura “gassosa” nel senso di una frammentarietà degli eventi caratterizzata da un loro fluire continuo, incessante, rapidissimo. Eppure in questa totale mancanza di centro da parte di categorie classiche come l’etica o la morale, gli artisti hanno spesso avvertito la necessità di trovare un punto di equilibrio nel presente tra quello che l’arte ha sempre significato e una società in perpetuo mutamento come l’attuale.
Mirella Ferrari e Marco Dalbosco sono due artisti con altrettante storie personali ben collaudate e che hanno saputo esprimere poetiche differenti. Ma nello stesso tempo sono accomunati da un totalizzante piacere di fare, di esprimersi attraverso un’arte che è un progetto di estremo rigore e sempre supportato da una grande manualità. Il terreno d’incontro è quindi quello della loro scelta di far venire fuori l’elemento umano e il punto di vista morale sulle cose.
Mirella Ferrari lavora sul tema dell’intaglio, adoperando materiali che vanno dalla carta alle stoffe, alla polpa di cellulosa, compone spettacolari sequenze di “merletti” nelle più diverse forme e dimensioni anche ambientali. Un cut off che porta a realizzare delle trame visive che sono anche poesie in cui i ritmi di vuoto e pieno si alternano con sapienza ed eleganza, tendendo ai limiti della smaterializzazione. La sua può essere definita una “decorazione formante”, un minimalismo visivo che nasce da una gestualità ripetuta fino all’ossessione.
Questa è una caratteristica fondamentale del lavoro di Mirella Ferrari, perché il tagliare e il creare dei vuoti sono fondati sulla ripetitività che però non è mai meccanica, ma è quasi una coazione a ripetere in chiave creativa.
Le opere che realizza Mirella Ferrari, talvolta evocano forme legate ai vestiti femminili e possono apparire come passamanerie aggredite dal tempo. Sono sculture leggere e aeree, che suggeriscono un’idea di fragilità, perfettamente raccolte e presentate nella mostra “Kind of White” del 2013. La manualità è certamente un tratto distintivo e si attua attraverso un mantra costruttivo, con sapienza e attenzione, in un progetto che è basato su di un durissimo lavoro di
realizzazione, su di un’etica del lavoro rigorosa.
Marco Dalbosco opera negli interstizi della comunicazione sociale, affrontando temi importanti e ponendo sempre alla base il valore antropologico e sociale del lavoro. L’arte per lui è il rivelatore delle mancanze di una società volutamente disattenta e veloce nel dimenticare, è il luogo di amplificazione dei conflitti e anche di presa di coscienza critica della realtà. Nel 2008 con “Scala 1:18” aveva sondato l’ambiente del lavoro e della produzione industriale.
Il fare per Marco Dalbosco è fondamento di una pratica che unisce la gente comune agli artisti, base per un modo diverso di leggere la realtà al di là dell’alienazione della fabbrica. Con “Anything Else” del 2011 ha realizzato una straordinaria performance con attrici-modelle che hanno “sfilato” su di un
palcoscenico, seguendo le linee della trama e dell’ordito di una serie di tessuti. Così ha messo a nudo il mondo del fashion riducendo l’apparenza alla logica costitutiva dei tessuti con cui si creano gli abiti.
Nel 2015 Marco Dalbosco ha realizzato Il libro d’artista “Labor’s Game”, formato da una griglia di carta incisa secondo gli schemi geometrici delle performance dei due lavori precedenti che svelano e coprono, nello stesso tempo, una serie di interviste realizzate in un Job Center a dei giovani in cerca di lavoro. Per l’artista la necessità di trovare un’occupazione resta una priorità esistenziale per qualsiasi individuo e che può diventare strumento di potere da parte dell’industria e dell’economia. Fare, lavorare: parole chiave per interpretare un presente disseminato tra passato e futuro.